LUCIANO CHINESELUCIANO CHINESELUCIANO CHINESELUCIANO CHINESELUCIANO CHINESE

    …mi preme soltanto di far notare come alcuni pittori abbiano posto tutti i loro sforzi nella strutturazione d’una nuova spazialità; che di solito mirava ad essere qualcosa di diverso e di più importante di quella atmosferico- impressionista, e anche di quella astratto- costruttivista; che mirava dunque alla costituzione di uno spazio  “artistico” differenziato rispetto all’ambiente, ma al tempo stesso del tutto astratto e non riferibile ad alcuna realtà estrinseca o intrinseca…
    Gillo Dorfles, “Lo spazialismo” in “Dall’informale al Postmoderno. Ultime tendenze nell’arte d’oggi”, Milano, 1997.

    Maggio 2003.  Parlare di nuova spazialità e della ricerca di uno spazio artistico differenziato, argomento dell’opera pittorica di Luciano Chinese, sembra un discorso tautologico e non solamente per le derive che indirizzano ieri come oggi la sua forma espressiva. Chinese infatti già qualche decennio fa era cenobita dei pittori, che componevano allora il groupe espace veneziano, attivo fattivamente – non diversamente da quello milanese guidato da Lucio Fontana – nel sondare attraverso diversi itinerari le energie della materia per condurla a darci un’immagine inedita, sublimata dal colore e dalla luce.
    D’altronde, stante la costante pertinenza di tali implicazioni strettamente innervate nelle sue problematiche, lo spazialismo non ha dovuto subire nell’ultimo quarto del ventesimo secolo l’eclisse, patita dagli altri movimenti dell’avanguardia, ciò in particolare perché i suoi legami indubbi via via dichiaratisi possibili, anche con neoconcretismo e cinetica, negli anni hanno appunto rivelato l’attualità di un’indagine rivolta ad identificare delle tipologie utili per giungere ad inattese interpretazioni dello spazio sulla tela.
    Non meravigli quindi se un artista, come Chinese, sempre molto attento al divenire della visione pittorica, continua senza posa a cercare la qualità del rapporto da stipulare in pittura con la realtà esterna. Ed oggi, obliando le consuete irrequietezze dell’astrazione, dei movimenti tellurici, che muovono la materia, estrae una nuova lampante evidenza, che sa leggere la valenza figurativa delle innumerevoli gocce dell’Uragano di Platone per farle espandere sulla tela e misurare così in superficie con originale intensità la mappa di una nuova spazialità.
    Si tratta beninteso di dar corpo ad una tracci di memoria culturale, che rimanda dunque all’uragano della creazione e tuttavia, nel gioco dell’arte, impegna l’artista ad enunciare, per la rappresentazione del reale, la scelta di una forma larvale della materia, metafora della cellula germinale che, aggregandosi, compone i termini di un intenzionale processo evolutivo in pittura.Non per nulla infatti Platone scrive di un’arte che va anche al di là diun principio di ragione, nella contemplazione delle cose…
    Chinese quindi, nel suo fervido cercare, va alle radici. Ed allora, come dal Chaos ha saputo estrarre, per rappresentarlo, l’alfa di queste particelle multicolori di materia      per depositarle liberamente su di un piano, che tuttavia già nelle sue partiture cromatiche rivela la vocazione all’ordine del pittore, così ora non si perita di andare oltre, nella sua indagine formale.
    A tal punto analizza le differenze che deriverebbero dall’osservare lo spazio della tela, come un luogo di raccolta e di memoria degli eventi trascorsi, ma anche di quelli, che immagina futuri: uno spazio ideale, là dove sarà una traccia rettilinea a partire le due dimensioni del passato e dell’immanente.

    Gennaio 2004. Che poi l’evolversi di tale esperienza costantemente tendesse ad esaltarsi nell’antagonismo speculare con la realtà era d’aspettarselo e lo dimostrano appunto gli esiti più recenti, che sottolineano l’acuirsi della tendenza a puntare verso l’interpretazione di formule rappresentative progressivamente concettualizzate, messe in atto sulla tela attraverso segni e colore, ma anche – come già segnalato più sopra – aggregandovi aggetti eterodossi.
    Orbene tale intensa dedizione per la ricerca espressiva, scandita nella sua traiettoria temporale da specifiche soluzioni diversificate, ha però sempre indirizzato Chinese ad esigere un modello tangibile e manifesto per la forma: fors’anche per portare l’osservatore ad acquisire la condizione necessaria, in grado di consentirgli di penetrare e quindi entrare a far parte ideale di quell’universo simbolico, che l’artista andava costruendo per la sua pittura, esperendo meccanismi strutturali, la cui composizione interagiva con uno spazio vuoto da esorcizzare.
    Là, dove ad interpretare tale processo, che ha prodotto già ferventi manifestazioni, varrà (e non troppo alla lontana) il noto aforisma goethiano, che così suona: Il simbolismo trasforma il fenomeno in idea, l’idea in un’immagine, in tal modo che l’idea nell’immagine rimanga sempre infinitamente efficace e inaccessibile e, anche se pronunciata in tutte le lingue, resti sempre inesprimibile (Maximen und Reflexionen, 1.113). Perché associazioni ideali, tra creatore e fruitore, permetteranno di percepire spesso unicamente il tegumento esterno, offerto dall’opera, quasi mai invece il concentrarsi delle pulsioni, che portano alla fisicità del progetto. Tale aura oscura, ad un dipresso l’esito di un rituale misterico, accompagna inevitabilmente anche la fase più attuale dell’indagine prodotta da Chinese.
    Siamo di fronte infatti ad un gruppo di tele che ora si codificano, almeno in apparenza, secondo uno schema geometrico e tuttavia in tale contingenza la vocazione all’ordine, che è sempre barriera alle fughe in avanti, tipiche alla personalità dell’artista dalla forte ed imperiosa vena creativa, impone anche la rinuncia all’uso di elementi plastici, emergenti dalla superficie della tela.
    Peraltro appare diffusa la sensazione di assistere così ad un magico ribaltamento del processo elaborativi, che caratterizza il pragmatismo dell’esercizio formale precedente.
    Secondo un canonico dispiegarsi della filosofia in chiave d’essenza spazialista ( non per nulla i titoli di queste opere chiamano in causa l’Ontologia dello spazio), l’artista intende testimoniare la possibilità del raggiungimento di uno schema espressivo, dove il simbolo sia cosa breve, immagine appena allusa, come di scorcio: ciò per esprimere, forse con un tocco di celata poesia un sogno ( come in Mallarmé: …le suggérer, voilà le rêve! ), la cui intangibilità si può imporre allo spazio vuoto, intatto e quindi inizialmente intangibile, della tela. Traccia segnica e colore, correttori del Chaos, come attraverso un iniziatico gesto ingegneristico, che rimanda così al rapporto essenza/essere del tema ontologico.

    CARLO MILIC